Angelo Casè

Nota di Angelo Casè, dicembre 1988, Minusio:

“Appena il sole, con l’antico e sempre nuovo calore, sfolgora il lago e l’ariosa cerchia delle colline di fattura lombarda, la facciata della Casa Tencalla a Bissone, dove vive Erminia Fritsche, sembra incendiarsi. Penetra la luce vermiglia dalla finestra del salone dove la pittrice lavora, anima lo scaffale stracolmo di libri che la nutrono spiritualmente entro un arco di interessi assai ampio (letteratura sì, ma pure filosofia, religione, mitologia, archeologia, musica: per accennare alla matrice interiore che dà sangue alle sue creazioni pittoriche). La scansia divide il locale in due ambienti altrettanto sereni: di qua, la sfilata degli oggetti feriali, rimossi quotidianamente nell’uso che esigono il cibarsi (parco), il riposarsi (meditativo), le puntigliose letture, le corrispondenze, le telefonate che mantengono l’artista in relazione con il vasto mondo: tutto l’occorrente, insomma, per un indispensabile, corroborante otium; di là, oltre il tramezzo, il tavolo su cui ella compie le ricerche di armonioso contatto con il materiale strettamente artistico: la tavolozza, i tubetti dei colori, i pennelli, le spatoline, l’inebriante odore dell’acquaragia che dona fremiti all’aria dell’atelier, conturba chi vi sosti a osservare tele e fogli lavorati, accende sopite passioni, i falò interiori che legano il visitatore a ogni artista, appena sulle tele e sui fogli vi siano i tizzoni autentici dell’arte. E conquista, la luce solare rosso espansa che cala dietro il battistero – dirimpetto – di Riva San Vitale, dietro la gobba del monte San Giorgio, la superficie della tela incompiuta, posta sul cavalletto: ne sommuove le campiture già distese con oculata calma, irrita le linee poco accennate delle figure dal timbro ancestrale che la Fritsche ha soltanto schizzato in concordia con le sue certezze più intime. A quell’alone dal tepore vermiglio, esse si animano, o sembrano vivere una loro autonoma voglia di essere: non già personaggi pretestuosi come sovente succede a chi, artista arrivato, sia soddisfatto di una sua meta raggiunta, di una sua formula pronta a venire duplicata, triplicata, centuplicata come si trattasse di uno stampo adatto a qualsiasi bisogna. Per quanto ho avuto campo di vedere, nello scavo lentissimo che la Fritsche impone alle sue creature, vengono riassunti i connotati di persone vere, percosse da sentimenti violenti, placate nel giro regale della ragione: emozione e raziocinio s’incastrano con forza sulle loro aspre fisionomie. Nascono così esseri umani primordiali, vaccinati contro l’erosione delle mode. La loro è una presenza risoluta, ferma, rocciosa. Si direbbero appunto scavati dai venti gelidi dell’antichità, plasmati dalle piogge bibliche, diluviali; riscaldati dalla ferocia tropicale del sole. Taciturne statue: che però hanno saputo scoprire un alfabeto avito che rimbomba nel silenzio dell’atelier: grazie alle loro fattezze semplificate al massimo, queste creature fritschiane espongono i loro problemi millenari eppure sempre attuali – senza grida o urla o strepiti: parlano senza parole, come parlano i sassi scabri con la grana dei cristalli, i tronchi dalle cortecce rivide, l’acqua della natura selvatica che si perpetua nel ciclo immemorabile. Gente antica: senza date all’anagrafe, senza passaporti, senza rispondenze di religione o di razza. Un’unica grandiosa progenie, che ha come emblema da difendere soltanto l’umanità schietta degli sguardi penetranti più del fuoco, del taglio ardito/ audace della bocca, dell’ergersi coraggioso di tutta la corporatura (pelle, muscoli, ossa, tendini: un insieme rugginoso, sabbioso, caparbio nel negarsi alle violenze, nel concedersi alle tenerezze dell’amore, nel trovare dentro il cuore la scia invadente del sole al tramonto sullo specchio accecante del Ceresio). Le persone che appaiono nei quadri di Erminia non sono esseri di facile approccio, non si lasciano irretire da richiami esteriori, fossero pure gagliardi come il calore straordinario del sole dicembrino di quest’anno di grazia 1988. Oppongono una loro tenace resistenza agli abbagli, alle melodie, alle questue querule dell’attualità: dietro la maschera del volto atteggiata a impassibile sigillo, o dietro vere maschere, di carta pesta, di stoffa, dietro venete bautte, queste persone ragionano, soppesano il molto dato e il corrispondente poco avuto che hanno messo a risalto le loro esistenze: ricordano i flagelli bellici, le esclusioni, le storture subite, rammemorano senza intenzioni di vendetta, solo con prospettive di giustizia. Mettono sui piatti della bilancia etica le briciole di affetto ricevuto, le brancate di affetto donato: cercano una pulizia morale che troppo spesso non sono riuscite a trovare in tanti anni di vita appassionata dentro una realtà concreta. Sono fisionomie che dicono di faticosi consuntivi, lasciano intendere itinerari per nulla agevoli, calvari amorosi, repressioni acute, sollecitazioni intense che trapassano l’epidermide pur di evitare ogni traviamento.

Una serena tristezza aleggia sulle facce di questa gente fritschiana: fissi gli occhi in una lontananza spaziotemporale: chilometri di mondo da scrutare tra strepiti e giungle e distese ghiacciate e savane e metropoli assordanti di clacson e sirene, per tentare di scoprire la virgola della felicità, povera pepita senza pretese, ambizioni, superbie: millenni di scavo, un fascio d’anni da sarchiare, grumo dopo grumo, per rintracciare la bontà primigenia, di prima del peccato originale. E le mani stupiscono: massicce, robuste. E la meraviglia senza confini dei volti, le indignazioni senza fondo. Elementi che accomunano in particolare i bimbi e le bestie, proposti alla periferia delle tavole, eppure quanto importanti per bilanciare gli interrogativi degli adulti! Ugualmente sospesi come a mezz’aria, non ancora corrotti in una specie di limbo, in attesa di quel niente che potrebbe precipitarli nel baratro del male oppure sospingerli nell’ascensione conclusiva verso il bene assoluto. Gli animali meriterebbero uno studio a parte di origine remota: gatti misteriosi come sfingi, che ipnotizzano: candidi colombi cavati dall’Arca dopo la quarantena del diluvio: o torbidi corvi che tirano alla mente certe allucinanti presenze di Poe: cavalli attoniti che di tanto in tanto si trasformano in Pegasi alati: bovini che allarmano, sofferenti quasi per essere stati testimoni di nequizie, come il vitello dorato che è il fulcro di una serie di quadri: silenti falchi feriti o memorie di rondinotti ingenui, gli stessi che la Fritsche imbocca sulla spaziosa loggia di casa. Un bestiario senza limiti temporali, quale doveva muoversi nei vaghi giardini mitologici. Sulla superficie dipinta o segnata dalle sanguigne, dai carboncini, per contro, il bestiario è immobile, scolpito nel sale, verrebbe di pensare, come in sale venne tramutata Sara, la donna di Loth, tentata dalle vanità provvisorie della giornata. Bestie monumentali, identiche a quele che animarono i pomeriggi afosi delle tribù primitive, le loro serali veglie, l’attimo innocente del ridestarsi dopo il riposo notturno: animali, il cui volume maestoso diviene indispensabile interlocutore per i volumi, altrettanto maestosi, dell’umanità con la quale vengono a convivere, entità entrambe astratte dal brulichio fatuo della vita consueta, ma drasticamente poste in ascolto del battito inesorabile che sostanzia la vita vera. Persone e bestie che sono volumi compatti, non intaccabili dalla muffa degli accadimenti banali, dall’inedia passiva, dalle infingarde pulsioni, dalle finzioni laceranti che connotano la nostra epoca. In ogni soggetto che la Fritsche pone come nucleo della sua attività severa e dolce, pare condensarsi l’interminabile ciclica ripetizione della vita e della morte, le apprensioni fisiche e le incrollabili certezze spirituali di un’artista che, nei contatti umani, abolisce qualsiasi barriera. Immaginarsi se pone ostacoli negli incontri che partorisce la sua concezione filosofica/religiosa! Un percorso di ricerca, il suo, che mira ad un unicum tra concretezza e astrazione, tra il segno materico e l’alitare di una ragione che vuole ordine e rispetto anche – e pour cause – nell’adagiarsi prudente delle linee e dei colori. Prudenza insieme a volontà. Una pittura nata dagli impulsi espressionisti che caratterizzano non pochi artisti d’oltralpi (si ricordi che la Fritsche è nata a Zurigo, ma d’origine viennese, la Vienna gheriglio di dolcezze e crudeltà, chessò di uno Schnitzler e di uno Schiele per fare due nomi, sul versante letterario l’uno, su quello pittorico l’altro): una pittura affinata dagli studi caparbi con Wilhelm Hummel e Max Gubler, di subito distintasi per il sottile humor amaro (dettato dalle tristi vicende esistenziali dell’artista), per la predilezione del ghigno marionettistico (una parentela sotterranea credo si possa avvertire con taluni lavori satirici di Fritz Pauli, di Mac Couch). Una presa di posizione che mette a nudo la realtà umana dei singoli e delle comunità, immersa sia nella cronaca più minuta, sia nelle tappe storiche già incasellate dal tempo, i geroglifici egizi, le tavolette trovate nella città di Elba, le sequenze del tàntra, la limpidezza contemplativa del Taoismo.

Gradualmente, la compostezza iconografica ha preso il sopravvento nella stesura dei quadri (come in certe magiche, equilibrate, tavole di Sironi, di Campigli): sarà per la diluizione del tratto, un tempo inciso come al bulino, oggi arricchitosi di intensità poetica, lievitato da contrasti tonali che l’insieme degli elementi riesce a far confluire in zone robuste. Risultano documenti inquietanti: non più il solo grido di intonazione tribale, ma la composta frase che distingue il teatro greco in tutta la sua complice solennità tragica. D’altronde un parametro critico non può dimenticare il silenzioso cammino della Fritsche per scrollarsi di dosso gli insegnamenti pure importanti appresi in gioventù, per affrontare con mano tutta sua situazioni che, sotto sotto, hanno attinenza diretta con la sua vita privata, segnata da non pochi triboli iniqui. Come la pittrice ha saputo però combattere le traversie esistenziali sue, così le sue creature affrontano le controversie e gli adolescamenti con una fermezza che non vuol significare posizione statica. Infatti, quella loro rigidità corporale incute, quasi contraddittoriamente, un senso di dinamismo positivo, mai è indice di acquiscente rassegnazione. Suscitano valori di una cristianità virile: dignitosa opposizione alle angherie esplicite e implicite che possono nascere dalla convivenza sociale: un dissenso, però, intriso di civile responsabilità, di comprensione maschia verso le altrui sofferenze, in quanto proprio attraverso sottili sofferenze la Fritsche medesima ha trovato la direzione morale giusta per esaminare con imparziale distacco i soprusi, le emarginazioni. Sia nei disegni, sia nei dipinti, annoto una uguale decisione di mano, tesa e coerente, in grado di grattar via l’inutile, di cancellare i futili dettagli, e nei particolari, per mirare con occhio libero e caparbio all’essenza primaria dell’uomo. Trovo che l’artista, in specie nelle opere più recenti, sia pervenuta a crearsi una tipologia umana che pare cavata da giacimenti fossili grazie a una perspicacia intuitiva degna di un valente paleontologo. Vibrano così, concilianti, gli elementi che caratterizzano la specie nostra, estirpata da ogni connotazione epocale: vengono registrate in modo perentorio, di tavola in tavola in crescendo, le oscillazioni interiori decantate nel silenzio cosmico, allorché a prevalere erano la solitudine e l’amor di coppia a evidenziarsi era una solidale e puntigliosa partecipazione di gruppo, o ancora allorché poteva balenare, tra uomini e animali, l’identità che solo la vera sofferenza sa allignare perfino in un dettato di pietà crudele. Reciproco stato di dolore, già illuminato dai versi che Umberto Saba indirizzava a una crapa, bagnata dalla pioggia e legata in un prato: Quell’uguale belato era fraterno / al mio Dolore. Ed io risposi, prima / per celia, poi perchè il dolore è eterno, / ha una voce e non varia. La Fritsche, come il poeta, ha saputo eliminare le sbarre delle trappole che la vita dissemina sulle strade umane, sbarre tra uomo e uomo, tra uomo e bestia. Sicché la sua gente è libera, mai schiava: se qualcosa l’opprime, la corrode, è l’eterna domanda che si pone ogni essere intelligente e sensibile: qual è il nostro comune fine ultimo? Per il tramite dell’espressività dei colori, delle linee, ella ha dato dimensione veritiera alle positure degli esseri umani, maschili e femminili, paludati o ignudi, serrati in conversazioni o monologanti, o silenti spettri che non ricordano nascita e che non avranno morte: stanno fissi a testimoniare l’attimo di vita che li ha stregati, addolorandoli, allietandoli. Figure che esprimono un istante che coinvolge secoli di storia umana: un momento, in cui si è coagulata l’impazienza delle avventure: la quiete delle soste accaldate; gli errori commessi e purgati con il piangere segreto di chi ha una dignità da custodire; le generose offerte bene o mal ripagate; l’amarezza susseguente a un’ignobile inquisizione; l’attonito inquietante sorriso di chi sa ringraziare per un nonnulla ricevuto, per una sconfitta immeritata, per la rinuncia alla parola. Parola sostituita dal decoro del colore, come ci insegna con ostinata dolcezza l’attività pensosa di Erminia Fritsche.”